domenica 29 dicembre 2013

CAMPACCIO: UN SACRIFICIO NEL FANGO E NELLA NEVE


di Giorgio Cimbrico
San Giorgio su Legnano appartiene a quella Lombardia che, secondo Gianni Brera, un tempo era popolata di tribù di pura razza ligure, un’area che si estendeva più a ovest, investendo il Ticino (Tisin) anche sulla sponda piemontese. Probabile che, nelle profondità di un tempo lontano e misterioso, nelle sfide di forza, destrezza e resistenza tra i villaggi figurasse anche la corsa: i greci gareggiavano sullo stadio – a palmi, i moderni 200 metri -, i liguri (non ancora longobardi) sul campasc, il terreno incolto dove nessuno andava a sotterrar semi o tuberi.

E’ singolare – e anche commovente – che le due corse campestri con i più solidi quarti di nobiltà siano nate a pochi chilometri l’una dall’altra parte, lungo l’Olona: il Campaccio di San Giorgio è spesso la gara dell’Epifania, nel freddo acuto; la Cinque Mulini, come un rito ancestrale, coincide con la fine dell’inverno e il rattrappirsi del buio. L’uno e l’altra sono le creature semplici e solide di polisportive paesane che hanno finito per vedere i loro nomi stampati sui calendari internazionali, i loro dirigenti stimati quanto quelli dei promoter dei grandi meeting.  

Corsa campestre, cross country: un esercizio, un sacrificio nella neve, nel fango che diventa peso supplementare, un rito, una festa, un’atmosfera che riporta a quella respirata nelle classiche (sulle due ruote) del Nord, sul pavè o tra i boschi amari delle Ardenne. E’ sempre con questi sapori in bocca, con queste immagini nella testa che ci si avvicina a queste scadenze antiche che il tumultuoso presente non è riuscito a sminuire, a smontare.

Il Campaccio fa parte di questo scenario e a questo punto non sarebbe il caso di cercare altre immagini o spendere molte altre parole e rimandare suiveur vecchi e adepti nuovi al libro di Ennio Buongiovanni, poeta, cronista, cantastorie. In quelle pagine c’è tutta la chanson de geste della corsa nell’annichilita campagna invernale che gli italiani conoscono bene e che ha finito per conoscere anche chi qui atterra dalla grande cicatrice della Rift Valley, dall’infinito altopiano attorno ad Addis Abeba.

Ambu e Gebre, Ortis e Kipchoge, Tergat e Bordin, Bekele e l’implacabile Panetta, quella buonanima di Grete Waitz e Paula Radcliffe, Paola Pigni, suffragetta del nostro mezzofondo, e Ingrid Kristiansen: è facendo frullare i pezzi colorati di un caleidoscopio che può esser colta sino in fondo la bellezza di una lunga storia.  


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